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6 Dicembre, 2023

La domenica c’è più gusto

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  Disnè, e anche oggi, in Piemonte, è occasione per far festa in tavola. Ritrovando pietanze e rituali protagonisti dei migliori pranzi che tra gli anni ‘50 e ‘70 hanno fatto epoca. Nel giorno del riposo…       “Andôma a fè disnè”, andiamo a pranzo. In poche parole, alla piemontese, si allude così a un desinare tutt’altro che ordinario. Sì, perché l’assonanza e qualche spostamento di lettera non devono trarre in inganno: il pranzo sottinteso nel “disnè” è quello per eccellenza, il più godurioso e opulento possibile. Da decenni incarna l’appuntamento della domenica che dalla metà degli anni ’50 e giù a correre fino alla fine del 1970 ha tramandato in ogni angolo della regione la voglia di far festa a tavola, nel giorno di riposo, eleggendo il cibo più ricco e vario a rito liberatorio, dopo una settimana di lavoro e di qualche ristrettezza alimentare. Tutto è incominciato nel secondo Dopoguerra inoltrato, quando nell’aria si respirava un po’ di “dolce vita”, con un benessere in ascesa e un forte desiderio di abbondanza e soddisfazione personale che trovava nel cibo una delle sue sublimazioni più classiche. I sacrifici dei tempi bellici, non lontani, e quelle rinunce rimaste nelle abitudini culinarie in materia di portate (sostanzialmente una), condimenti (pochissimo olio e tanto strutto) e soprattutto carne e dolci (dal lunedì al sabato praticamente assenti dalla tavola), trovavano una sorta di riscatto in un momento topico per le consuetudini familiari dell’epoca. Scattava la voglia di riunirsi con parenti e amici attorno a un tavolo per allietare la giornata con un vero e proprio banchetto che durava ore ed era “condito” da canti, balli e giochi. Un’abitudine gradita e costante che, sebbene un po’ sbiadita, è rimasta nel tempo. Come a dire che tutto scorre, ma l’equazione buon cibo-convivio perfetto ha una sua attualità. In Piemonte il “disnè” è ancora oggi sinonimo di pranzo luculliano, in versione edulcorata e più saltuaria negli usi, ma ancora costume e complice di grandi mangiate. E poi la sorpresa arriva da un recente studio dell’Accademia Italiana della Cucina che dice che il pranzo della domenica è un rito intramontabile in tutto lo Stivale: dati alla mano, un italiano su due osserva il cerimoniale ogni settimana e in quanto a piatti la preferenza più gettonata (82%) va a quelli strettamente tipici e del territorio, preparati in casa. «Il pranzo della domenica – spiega Giovanni Ballarini, Presidente dell’Accademia Italiana della Cucina – rappresenta l’ultimo baluardo della socializzazione, un’occasione unica di confronto e di dialogo tra i membri della famiglia. Un appuntamento che conserva anche un eccezionale valore di presidio gastronomico: profumi, ricette e piatti del nostro patrimonio regionale capaci di parlare al cuore dei commensali».Per riassaporare il fascino e il gusto del pranzo della domenica, esattamente così, come si faceva una volta, è ancora dal Piemonte che arriva l’invito. Sul territorio della marca ‘Po Confluenze Nord Ovest’, dove i corsi d’acqua della Valle d’Aosta e del Canavese confluiscono nel Grande Fiume, il rito rivive con il progetto Disnè che è nato dalla collaborazione di Turismo Torino e Provincia e del Parco Fluviale del Po torinese. Ogni mese, fino al prossimo giugno, il banchetto domenicale è riproposto in ristoranti tradizionali e cascine con la cucina legata al fiume e alle sue terre limitrofe, tante ricette storiche, intrattenimento e la presenza di un’esperta di cucina e studiosa delle tradizioni gastronomiche, Giovanna Ruo Berchera, che dischiude ai partecipanti saperi e curiosità sul “disnè” e i suoi irresistibili sapori.   Un sapore tira l’altroIl “disnè” si faceva anche a casa, in famiglia, con la stessa abbondanza e convivialità, ma il pranzo della festa, quello propriamente detto, prevedeva la “trasferta” nelle cosiddette “uberge” (le trattorie) o nei ristoranti dove era il tipico a trionfare. Da mezzogiorno, lungo l’intero pomeriggio, la tavola vedeva sfilare una straordinaria varietà di piatti ed era anche il luogo dove il cibo si alternava a momenti di pura allegria con canti accompagnati da fisarmonica e chitarra, balli e il gioco delle carte o delle bocce. L’andare a mangiare fuori rappresentava la grande occasione per stare insieme oltre che per gustare leccornie. Il menu, facile a pensarlo, non risparmiava in quantità. Nelle porzioni, certo, ma anche nel numero delle portate. «Agli antipasti, che erano generalmente sette/otto, seguivano due primi, due secondi, i formaggi e i dolci», spiega Giovanna Ruo Berchera. «Nella prima portata non mancavano mai l’insalata russa, le acciughe al verde, un piatto a base di pesce, essendo questa una zona di fiume: con carpa, tinca, anguilla in genere in carpione, e la trota, talvolta servita con maionese. Spesso presente, il vitello tonnato, sia nella versione con maionese, che ha iniziato a diffondersi dagli anni ’50, sia senza, come da ricetta originaria. Nei primi del ‘900, infatti, la salsa era fatta con il tuorlo sodo – mentre l’albume veniva aggiunto all’insalata russa, per non buttare via nulla – acciughe, capperi e un po’ di brodo. Il composto era meno unto e non presentava problemi per la conservazione quando ancora il frigorifero non c’era. I primi piatti (si sono chiamati così a partire dagli anni ’70, prima si parlava genericamente di “minestre”) riunivano una “minestra asciutta” e una “in brodo”. Nelle due categorie trionfavano rispettivamente gli agnolotti, fatti con tre tipi di carne (vitello, maiale e pollo) e conditi col sügo (ragù di salsiccia e carne di vitello con pochissimo pomodoro), e la pasta reale: una sorta di bignè piccoli come nocciole».   Dolce in fondo, ma non soloSul fronte dei grandi classici a primeggiare è stato sempre il fritto misto, non di pesce, come lo si intende comunemente, ma in parte dolce (con mela, semolino e amaretto) e in parte salato (piccola milanese, fegato, salsiccia, cervella, animelle di vitello, schienali, testicoli, verdure). La sua collocazione alla carta era variabile: a volte era servito come secondo, ma spesso a fine antipasti, prima delle minestre. Tra i secondi svettavano i bolliti, con bagnetto verde e rosso, e la finanziera (umido a base di frattaglie sia di vitello sia di pollo e funghi sott’aceto). «La finanziera è un secondo nell’uso popolare – spiega Ruo Berchera – ma trae spunto dalla cucina nobile o di corte. Nei ricettari della metà dell’800 era considerata una “guernitura”, ossia un contorno/intingolo servito con il filetto o all’interno di anelli di riso». Dopo i secondi arrivavano i formaggi, in due/tre qualità: toma d’alpeggio in primis, ma anche gorgonzola e fontina «nel “disnè” si voleva mangiare qualcosa di diverso da quello che si produceva in casa», aggiunge Giovanna Ruo Berchera. Dulcis in fundo? Lo zabaione, caldo con pasta di meliga (mais) in inverno, e ghiacciato, come una sorta di semifreddo, in estate. E poi le pesche ripiene con amaretti, polvere di cacao e profumo di Marsala o di Persico (liquore a base di mandorle armelline). Per uscire dagli schemi casalinghi si poteva scegliere la zuppa all’inglese, fatta di 5/6 strati di pan di Spagna imbevuti nel liquore (Marsala o Amaretto) e alternati da crema pasticcera profumata al limone o al cioccolato.  Il rito è servitoMa, tra tanta grazia, esiste un filo rosso, magari un unico aggettivo, capace di mettere a fattor comune tutta questa varietà? Sì, e fa rima con autenticità. Perché unirsi alla tavola di uno dei pranzi domenicali organizzati dall’iniziativa Disnè significa soprattutto assaporare ingredienti genuini, che sanno di terra, fatica, lavoro e dedizione. «La cucina del territorio, come quella di una volta è fatta di pochi elementi, ma di quelli giusti», dice Antonio Canato, proprietario e chef del Nord America di Cigliano (Vercelli), dove si è tenuto uno dei primi “disnè” del progetto. «Dalla carne ai fagioli scelgo personalmente le materie prime che vengono dalle zone vicine e da produttori di fiducia».Gli appuntamenti fissati da Disnè propongono menu che tengono conto delle diverse impronte culinarie, sottili ma evidenti, delle zone della terra di Po e Confluenze Nord Ovest.«Nel basso Canavese – afferma Ruo Berchera – un piatto peculiare è la tufeja (dall’omonima pentola in terracotta): minestrone di fagioli con tagli di maiale come il prejve (involtino di cotenne) e lo zampino. Nella zona del Vercellese, invece, i fagioli finiscono nella panissa, risotto con salame d’la duja (insaccato, conservato in olla di terracotta con strutto di maiale). Nel Chivassese, tanti i piatti di fiume con molta anguilla, anche fritta, mentre nel territorio delle colline del Po si sente l’influenza della cucina borghese torinese (un grande classico, il vitello tonnato) e monferrina, dove per esempio compare il coniglio nel ripieno dell’agnolotto». Che altro aggiungere se non: buon appetito?   Tipicità sotto tutelaLegati a doppio filo con i gusti del “disnè” sono i prodotti che in parte arrivano dal Paniere delle tipicità della Provincia di Torino. Il progetto, avviato nel 2001, ha selezionato 30 voci più i vini Doc della provincia di Torino con lo scopo di valorizzarne e promuoverne la produzione.Per questa sorta di “vetrina comune” sono stati scelti prodotti «tradizionali, con una storia di almeno 100 anni comprovata da documentazione», spiega Elena Di Bella, dirigente del servizio sviluppo rurale della Provincia di Torino. «Le materie prime, inoltre, come il latte e le carni per esempio, sono locali o almeno piemontesi, le varietà vegetali autoctone (geneticamente nate in quel luogo), le produzioni artigianali. Infine, un requisito importante è la prospettiva di sviluppo economico». Nel Paniere sono così finiti prodotti caseari e da forno, salumi e carni, dolci, frutta, erbe aromatiche officinali, verdure e distillati. «Nei primi 2/3 anni di lavoro per la costruzione e promozione del Paniere – aggiunge Di Bella – sono stati investiti 4 milioni di euro, di cui 1 speso per la fornitura ufficiale del Comitato Organizzatore delle Olimpiadi Invernali di Torino 2006. A fronte di investimenti di denaro pubblico, abbiamo aggiunto nella selezione il criterio economico». In cima agli obiettivi c’è comunque la garanzia di qualità per il consumatore, tutelata da disciplinari  di produzione. E poi c’è la voglia di preservare tesori di enogastronomia che non dovrebbero estinguersi mai. Qualche esempio? C’è il cavolo verza di Montalto Dora, un’antica varietà che arriva ai 3 chili di peso e c’è il salam patata, che dura soltanto 3 giorni. È una salciccia freschissima e morbida che si può anche spalmare sul pane o fare al forno. Si chiama così perché per metà è fatta di patate, come si usava quando c’era poca disponibilità di carne. Un’altra gemmaè il Genepi Occitan, ricavato da distillazione artigianale di Artemisia Mutellina, un’erba che nella sua forma migliore si coglie dai 2000 metri in su. La Tuma ‘d Trarsela, invece, «è realizzata prevalentemente da giovani donne e soltanto con latte della Val Chiusella. Un luogo incantevole con una vallata verdissima e case in pietra ristrutturate come un tempo.Che lì sembra essersi fermato».     (Info: provincia.torino.it/agrimont/sapori/paniere).  Dove andare al Disnè Locanda del SoleVia Roma 16 – Chivasso (To)  Trattoria Leon d’OroVia Argentera 13 – Frazione Mastri Bosconero (To)  Ristorante DefilippiStrada Rivalba 8 – Gassino (To)  Trattoria La PaceVia Bellavalle 11 –  San Sebastiano da Po (To)  Agriturismo La Locanda del BiruVia Giulio Romano Vercelli 15Frazione Marcorengo – Brusisco (To)  Cascina Cerello (gran “disnè finale”)Strada Provinciale di Bosconero – Chivasso (To)   INFO Turismo Torino e ProvinciaUfficio IAT IvreaTel. 0125618131info.ivrea@turismotorino.org 

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